Il 31 ottobre 2014 presso la sala conferenze di Palazzo Toaldi Capra, organizzata dall’associazione Schio Amici di Grigny, si è tenuta una serata di letture tratte da testi di letteratura francese di scrittori del Novecento. Questi brani sono stati scelti per fare memoria ed approfondire la nostra conoscenza sulla tragica esperienza delle guerre che hanno scosso e segnato in maniera indelebile il XX secolo. Le letture sono state eseguite dall’associazione Libramente della Biblioteca Civica di Thiene e accompagnate da brani musicali interpretati dalla giovane violinista Daniela Dalle Carbonare.
Di seguito un approfondimento sui brani prescelti e sui relativi scrittori.
IN GUERRA: SCRITTORI FRANCESI NEI DUE CONFLITTI MONDIALI
venerdì 31 ottobre 2014
LOUIS PERGAUD, La guerra dei bottoni, 1912.
Louis Pergaud (Belmont, 22.01.1882 – Marchéville-en-Woevre, 8.04.1915) è stato uno scrittore e poeta francese. Figlio di un maestro di campagna della Franca Contea, nel 1901 è costretto ad abbandonare gli studi intrapresi all’Ecole Normale di Besancon a causa della morte di entrambi i genitori e a cercare lavoro come istitutore. Nel 1907 si trasferisce a Parigi per avvicinarsi al mondo letterario e qui conosce infatti importanti letterati, come Lucien Descaves. Nel 1910 pubblica il suo primo libro in prosa, De Goupil à Margot, che gli varrà il premio Gouncourt, importantissimo premio francese che viene assegnato ad opere considerate particolarmente originali. In questo libro cerca le somiglianze tra gli istinti degli animali e le attività immorali dell’uomo. Pesa in quest’opera il suo fervente antimilitarismo maturato durante il servizio militare nel 1902. Il suo libro più famoso resta La guerra dei bottoni (romanzo dei miei dodici anni), pubblicato nel 1912.
Allo scoppio della Prima Guerra Mondiale, all’età di 31 anni, viene richiamato alle armi e destinato a Verdun, sul fronte occidentale. Il 7 aprile 1915, durante un attacco alle linee tedesche, viene ferito e rimane intrappolato nel filo spinato. Soccorso dai tedeschi, viene portato insieme ad altri soldati francesi in un ospedale da campo provvisorio allestito appunto dai tedeschi. E qui muore il giorno dopo, in seguito a una raffica di artiglieria francese che distrugge l’ospedale.
La guerra dei bottoni racconta di un mondo che non esiste più e parla di abitudini, gesti, parole e oggetti che non ci appartengono più. Parla di adolescenti che in uno scenario naturale di rara e incontaminata bellezza combattono tra bande di paesi vicini nella Franca Contea alla conquista di… bottoni. Ma queste pagine leggere, ironiche, scritte dalla parte e dal punto di vista dei ragazzi, diventano metafora della crudezza della guerra, quella fatta dagli adulti.
“Ebbene, amici miei, un giorno di quei tempi lontani, nel momento che l’erba cominciava a diventar buona per la falce e per il fienile, quelli di Longeverne, guidati dal curato, si sono messi in viaggio tutti quanti, uomini, donne e bambini, per fare un pellegrinaggio a Nostra Signora di Ranguelle, alla quale volevano domandare di mandargli un po’ di sole per far venire bene il fieno.
Sfortunatamente, lo stesso giorno, anche il curato di Velrans aveva deciso di portare il suo gregge alla stessa Vergine, perché, di santevergini, mica ce n’abbiamo a cagate dalle nostre parti, con tutto l’accompagnamento di santi sacramenti e affari del genere. E quelli là, invece, volevano della pioggia per i loro cavoli che non venivano su… […] Arrivati a una decina di passi di distanza, gli uomini hanno cominciato a minacciarsi, a mostrarsi il pugno, a farsi degli occhi come i gatti in calore. Allora ci si sono messe anche le donne […]. Allora tutti si sono messi a raccoglier sassi, a tagliar bastoni e a lanciarsi il tutto a distanza. Poi, presi dalla rabbia, si sono buttati addosso gli uni agli altri e hanno cominciato a menare con tutto quello che capitava: ciak, una pedata! toc, una librata di messa! […]”
“Che meraviglia che dev’esser stato” pensava intanto, tutto commosso, Lebrac.”
“E chi è che ha avuto ragione presso la Nostra Signora: quelli di Velrans o noi di Longeverne? E’ venuto il sole o la pioggia?”
“Tutto quello che hanno guadagnato ad andarci” concluse con noncuranza La Crique “è stato di avere la grandine!”
HENRY BARBUSSE, Il fuoco, 1916.
Henry Barbusse (Asnières-sur-Seine, 17.05.1873 – Mosca, 30.08.1935) è stato uno scrittore, giornalista e attivista politico comunista francese. La fama come scrittore gli giunge con il libro Il fuoco del 1916, basato sulle sue esperienze durante la Prima Guerra Mondiale, nel quale l’autore mette in evidenza il suo antimilitarismo e critica aspramente la guerra per tutte le atrocità e la sofferenza che procura. Il libro, che al tempo gli attira dure critiche per il forte realismo, verrà insignito del premio Goncourt.
Avvicinatosi sempre più al bolscevismo e alla Rivoluzione Russa, unitosi al Partito Comunista Francese, convinto stalinista al punto da scrivere una biografia di Stalin, Barbusse andrà a vivere a Mosca, dove morirà. Il suo corpo riposa nel cimitero Père Lachaise di Parigi.
Caratterizzato da una grande forza descrittiva, Il fuoco ha costituito il nucleo centrale della nostra serata di lettura. Come Emilio Lussu, anche Barbusse vede nei combattenti degli uomini, non dei soldati, che lottano per sopravvivere, soffrono, disperano e sperano, continuamente sopraffatti dall’immensità della guerra.
La vita di trincea ci appare in tutta la sua tragica concretezza: i soldati con il loro abbigliamento, la loro età, le loro origini, i loro mestieri, la fame e il rancio, la trincea nella sua triste realtà, i combattimenti, i feriti, i morti. E poi il giudizio sulla guerra:
[…] “Ti diranno: – Amico mio, sei un vero eroe! – Eroi, degli uomini straordinari, degli idoli?! Suvvia! abbiamo fatto onestamente il mestiere di assassini! Lo faremo ancora, e senza risparmiarci, perché quello che conta davvero è fare bene questo mestiere, per punire la guerra, per strozzarla. Uccidere è una cosa ignobile – a volte necessaria, ma pur sempre ignobile. Sì, spietati e infaticabili assassini, ecco cosa siamo stati. Ma che non mi vengano a parlare di virtù militari sol perché ho ammazzato dei tedeschi…”
RAYMOND RADIGUET, Il diavolo in corpo, 1921.
Raymond Radiguet (Saint-Maur-des-Fossés, 18.06.1903 – Parigi, 12.12.1923) è stato uno scrittore francese di precoce e vasta cultura, spaziante dal Seicento al Simbolismo, grazie alla quale, nonostante la giovane età, ha potuto essere introdotto nell’ambiente artistico parigino e collaborare a riviste di avanguardia. Muore di febbre tifoidea a soli vent’anni.
Il diavolo in corpo è la storia dell’amore tra un adolescente e una giovane signora, amore vissuto con la leggerezza e l’incoscienza che derivano dal clima eccezionale e quasi surreale generato dallo scoppio della Prima Guerra Mondiale, fino a quando la realtà, inesorabile e crudele, avrà il sopravvento. Molto apprezzato, il romanzo ispirerà ben tre film, nel 1947, nel 1985 e nel 1986.
Ma è anche la guerra vista attraverso lo sguardo di un adolescente. Forse, più che vista, percepita.
“Sì, mi aspettano dei rimproveri. Che cosa ci posso fare? E’ colpa mia se compivo dodici anni qualche mese prima della dichiarazione di guerra? Forse le emozioni di quel periodo straordinario furono di un genere che non si prova mai a questa età; ma dal momento che non c’è niente di così formidabile che riesca ad invecchiarci, malgrado le apparenze, era fatale che io agissi da bambino in un’avventura che avrebbe messo in imbarazzo anche un uomo fatto. Non sono il solo. Anche i miei coetanei ricorderanno questo periodo in modo diverso da chi è nato prima. E chi mi vuol male immagini pure ciò che fu la guerra per tanti ragazzi allora giovanissimi: quattro anni di grandi vacanze.
Abitavamo a H…, sulla riva della Marna.
I miei genitori erano abbastanza contrari alle amicizie miste. La sensualità che nasce insieme a noi e si rivela ancora cieca, invece di soffrirci ci guadagnava.
Non sono mai stato un sognatore. Quello che sembrava un sogno agli altri più ingenui, mi pareva reale come è reale per il gatto il formaggio sotto la campana di vetro. Però la campan aesiste. Se si rompe, il gatto ne approfitta. anche quando sono i padroni a rompere la campana, a tagliarsi le mani. […] Le vere vacanze si avvicinavano, io me ne occupavo pochissimo perché per me continuava la stessa vita. Il gatto teneva d’occhio il formaggio sotto la campana. Venne la guerra. Ruppe la campana. I padroni avevano altre gatte da pelare e il gatto si rallegrò. […]
Ogni giorno dopo pranzo andavamo alla stazione per veder passare i treni militari. Portavamo delle campanule e le gettavamo ai soldati. Signore versavano il vino rosso nelle fiasche rovesciandone litri sulla banchina cosparsa di fiori. Tutto l’insieme mi ha lasciato un ricordo di fuoco d’artificio…”
IRENE NEMIROVSKY, Suite francese, 2004.
Irène (vero nome Irma Irina) Némirovsky (Ucraina 11.02.1903 – Auschwitz 17.08.1942), figlia di un ricco banchiere ebreo ucraino, viene allevata da una governante francese e farà del francese quasi una seconda lingua madre. Trascorre l’infanzia e l’adolescenza negli agi e nel lusso, ma senza l’affetto della madre, che non si prenderà cura della sua educazione. Nel gennaio 1918 i Soviet russi mettono una taglia sulla testa del padre e così i Némirovsky sono costretti a fuggire (si travestiranno da contadini). Si rifugeranno in Finlandia e in Svezia, poi nel luglio 1919 si trasferiscono in Francia, a Parigi. Qui Irène supera l’esame di maturità a soli 16 anni, nel 1919, e nel 1921 si iscrive alla Facoltà di Lettere della Sorbona, dove si laureerà nel 1924. Conosce sette lingue. Nel 1921 comincia a pubblicare. Nel frattempo (1926) sposa Michel Epstein, un ingegnere ebreo russo emigrato, che diventerà poi banchiere, da cui avrà due figlie, Denise ed Elisabeth.
Vittime delle leggi antisemite del 1940, Irène Nemirovsky e il marito, non potendo più esercitare alcuna professione, si trasferiscono nel Morvan, dove avevano messo in salvo le figlie. Come gli altri ebrei sono costretti ad applicare la stella gialla sui propri abiti.
Nel luglio 1942 Irène viene arrestata, portata in un campo di internamento francese e poi deportata ad Auschwitz, dove verrà uccisa il 17 agosto 1942. Anche il marito, dopo aver cercato inutilmente di salvarla, subirà la stessa sorte nel novembre 1942.
Le figlie riescono a salvarsi perché ospiti di una signora Dumas, amica dei genitori, dalla quale prendono il cognome. Mettono in salvo anche una valigia contenente dei documenti. Quando un giorno Denise aprirà la valigia, vi scoprirà un manoscritto della madre: i primi due tomi di un’opera in cinque volumi che resterà incompiuta: Suite francese.
In Suite francese si odora la fragranza dell’estate francese. Vi appare, come attraverso una lanterna magica, in tutta la sua dolente umanità, la Francia occupata dai nazisti del 1940-41. Si è come avvolti dai personaggi che si muovono tra ideali e attaccamento alla vita, tra codardia ed eroismo, tra stupore e desolazione, tra amore e paura. E’ un libro struggente a cui si finisce per appartenere, diverso da altri sullo stesso tema, perché scritto con la dolorosa incertezza di chi non sa come la guerra andrà a finire. Un libro terribilmente bello, fatto di immagini, di suoni e di rumori che non hanno bisogno di occhi e di orecchie per essere visti e sentiti.
“In casa Angellier ci si affrettava a mettere sotto chiave i documenti, l’argenteria e i libri: i tedeschi stavano entrando a Bussy. […] I tedeschi, in tenuta da combattimento, con elmetti di ferro, marciavano in file di otto. I volti avevano l’espressione impersonale e impenetrabile del soldato in armi, ma gli occhi osservavano furtivi, con curiosità, le facciate grigie del villaggio in cui si sarebbero insediati. Nessuno alle finestre […] ma dietro ogni imposta chiusa l’occhio di una donna anziana, penetrante come un dardo, spiava il soldato vincitore. […] Nelle case borghesi le donne nascondevano la biancheria più fine. […]
E pensò a Gaston Angellier. Ci sono quelle che aspettano lo stesso uomo, e quelle che aspettano un uomo diverso da quello che è partito, disse fra sé, e tutte restano deluse.”
CHARLES PEGUY, Il portico del Mistero della Seconda Virtù, 1989.
Charles Peguy (Orléans 1873 – Marna 1914) è figlio di un falegname che muore quando lui ha solo pochi mesi e di una impagliatrice di sedie. Dalla madre impara fin da piccolo che cosa sia quello che chiamerà “il lavoro ben fatto”. Poeta, filosofo, polemista, primo grande intellettuale, sarà uno scrittore fecondissimo. Nella sua opera, come nella sua vita, si dedica interamente all’impegno sociale, politico e religioso, caratterizzato sempre da una grande rigorosità. Che sia la difesa della giustizia e della verità (come nell’affare Dreyfus), il patriottismo, il socialismo umanitario, la fede cattolica alla quale si riavvicina nella maturità, le sue scelte sono sempre e comunque scomode. Muore come è vissuto, combattendo, il 5 settembre 1914, a 41 anni, colpito da una pallottola in fronte durante la battaglia della Marna. In vita fu misconosciuto o addirittura detestato. Ma lo scrittore Romain Rolland scrisse di lui: “Dopo aver letto Péguy, non posso leggere più nulla… Egli è l’espressione più geniale della letteratura europea”.
“Dipende da noi
Che l’eterno non manchi di temporale
(Singolare rovesciamento),
Che lo spirituale non manchi del carnale,
Bisogna dirla tutta, è incredibile: che l’eternità non manchi del tempo,
Del tempo, di un certo tempo.
Che lo spirito non manchi della carne.
Che l’anima, per così dire, non manchi di corpo.
[…]
Bisogna andare fino in fondo: che Dio non manchi della sua creazione.
Cioè dipende da noi
Che la speranza non menta nel mondo”.